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Ambivalenza

Il termine Ambivalenz è stato coniato da Bleuler, dal quale Freud l'ha mutuato. Bleuler considera l'ambivalenza un sintomo fondamentale della schizofrenia, ma ammete l'esistenza di un'ambivalenza normale. Nell'ambivalenza vi è il mantenimento di una opposizione del tipo sì-no, in cui l'affermazione e la negazione sono simultanee e indissociabili.
Il termie compare in Freud per la prima volta in Dinamica della traslazione (Zur Dynamik der Ubertragung, 1912), per spiegare il fenomeno del transfert negativo. Ma l'idea di una congiunzione dell'ampore e dell'odio compare già prima, per esempio nel'analisi del Piccolo Hans e dell'Uomo dei topi. 
L'ambivalenza può essere messa in evidenza soprattutto in certe affezioni (psicosi, nevrosi ossessiva) e in certi stati (gelosia, lutto). Freud in LUtto e melancolia conclude affermando che il problema non è la perdita dell'oggetto ma l'ambivalenza. L'ambivalenza caratterizza alcune fasi dell'evoluzione libidica in cui esistono amore e distruzione dell'oggetto (fasi sadico-orale e sadico-anale). 
In questo senso essa diventa in Abrham una categoria genetica, che consente di specificare la relazione ogettuale propria di ciascuna fase. La fase orale primaria è qualificata come preambivalente: "La suzione è un atto di incorporazione, con il quale però l'esistenza della persona che nutre non è soppressa". Per questo autore, l'ambivalenza compare solo con l'oralità sadica, cannibalesca, che implica un'ostilità verso l'oggetto; l'individuo impara poi a risparmiare il suo ogetto, a salvarlo dala distruzione. L'ambivalenza può essere superata allo stadio genitale (post ambivalente).
Nei lavori di Melanie Klein, che si rocollegano a quelli di Abrham, il concetto di ambivalenza è essenziale. Per la Klein la pulsione è senz'altro ambivalente: l'amore dell'oggetto stesso non si separa dalla sua distruzione; l'ambivalenza diventa una qualità dell'oggetto stesso contro la quale il sogetto lotta scindendolo in "oggetto buono" e "oggetto cattivo". Un oggetto mbivalente che sia al tempo stesso idealmente benefico e fadoamentalmente distruttore non può essere tollerato.
Freud alla fine della sua opera tende ad accrescere l'importanza dell'ambivalenza nel trattamento e nella teoria del conflitto. Il conflitto edipico, nelle sue radici pulsionali, è concepito come un conflitto di ambivalenza e una delle sue dimensioni principali è l'opposizione tra "...amore ben fondato e odio non meno giustificato, entrambi rivolti verso la stessa persona". In questa prospettiva la formazione dei sintomi nevrotici è concepita come il tentativo di approtare una soluzione a tale conflitto: la fobia per sempio sposta uno dei due componenti, l'odio, verso un ogetto sostitutivo; la nevrosi ossessiva tenta di rimuovere l'impulso ostile rafforzando il moto libidico sotto forma di formazione reattiva.

L'ambivalenza è qualcosa di più profondo di una "complessità di sentimenti", di "fluttuazioni nell'atteggiemento" o di "sentimenti misti", e va al di là dell'oggetto. L'oggetto non influenza l'ambivalenza, questa può essere l'espressione di una caratteristica strutturale dell'individuo dove gli opposti possono coesistere senza confluttualità. L'ambivalenza è essenzialmente qualcosa di inconscio. Per l'albivalente tutto va male, il sogetto nel suo sentimento profondo non riesce ad avere sentimenti misti ma nutre impulsi opposti: "ti amo e ti uccido", "ti accetto e ti rifiuto". Il paziente ambivalente non si da pace e si consuma. Lunghi fidanzamenti possono essere legati all'ambivalenza. Il problema è chiedersi se il soggetto è capace di amare. "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" (verso 103 canto V dell'Inferno): 
"L'amore, che a nessuno perdona, se amato, di riamare" "L'Amore, che obbliga chi è amato ad amare a sua volta". Per essere capace di amare senza ambivalenza patologica ed interamente una persona deve avere potuto fare esperienza in infanzia di essere amata senza ambivalenze dai suoi genitori. L'ambivalenza dei genitori verso i figli è patogenetica. Quando un genitore dice "non l'ho mai sgridato", ci si potrebbe chiedere "perché no?". Il figlio può crescere con ambivalenza rispetto alla propria identità. Queste persone necessitano di una cura a 3-4 sedute la settimana, necessitano di poter essere robustamente sorrette mentre vanno progressivamente ad accorgersi di quanto capita ed è capitato dentro di loro. Per la diagnosi è necessario poter affrontare con la coppia genitoriale a come è avvenuto il concepimento. L'impatto dell'ambivalenza è necessariamente maggiore nelle persone emotivamente vicine che in quelle lontane e, così, sui nostri figli piuttosto cvhe sui figli degli altri.

Bibliografia:
Laplanche e Pontalis - Enciclopedia della psicoanalisi

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